Il numero 24 de La voce del dato accoglie qualche appunto sul recente caso di influencer marketing di cui tutto si è detto in questo giorni. Resta però, forse, un piccolo spazio per qualche considerazione extra-morale, ovvero (blandamente) teorica e pratica, nella prospettiva delle ricerche di intelligence sulle opinioni e sui valori semiotici (etici ed estetici) in gioco, e per offrire qualche dato non di dominio pubblico che potrà aiutare chi legge a formulare dei giudizi tecnici con qualche informazione in più.
Le attività di intelligence (anche) nel marketing dovrebbero in fondo essere sempre il pre-requisito per formulare delle inferenze valide (e auspicabilmente efficaci). Non è sempre così, ma la convinzione che muove tropic in questa attività didattica, che contempla il donare regolarmente dati e insights alla propria comunità, è che dati e informazioni sia sempre meglio averli che non averli. Come, per restare al caso in oggetto, nel caso del presunto sold-out della tuta del video, che aveva portato alcuni a formulare delle inferenze errate, ma a posteriori estremamente interessanti per valutare i frame in cui veniva ingabbiata la vicenda; una vicenda che tropic ha contribuito a chiarire.
Ci si asterrà qui dai commenti, come sempre; sarà invece l’occasione per raccogliere qualcuno di quelli pubblicati in questi giorni (i link valgono qui come riferimenti bibliografici), assieme a qualche estratto (frutto di una selezione casuale) di report utili per suggerire qualche domanda, nello spirito di questa newsletter, che prova a portare un contributo per uscire dal regno dell’impressionismo e del sentito dire.
D’altronde le attività di marketing intelligence servono anche per mappare le opinioni e le emozioni su temi rilevanti per gli stakeholders e per cartografare la personalità semiotica e gli attributi semantici di brand e prodotti. Attributi che trovano ricetto nelle ricezioni delle varie manifestazioni di quei brand e di quei prodotti e non negli esercizi solipsistici degli agenti di cui sopra. In un piccolo carotaggio di qualche tempo fa, utile per le faccende di cui qui si parla, scrivevamo: “il dibattito sugli influencer è costantemente vivo nelle discussioni di settore, e altrove. Nonostante alcune critiche, pare sempre viva anche la disponibilità ad allocare nell’influencer marketing risorse non marginali, in varie forme. In questo quadro, le attività di marketing intelligence servono per la verifica delle performance degli influencer e, a monte, per la selezione di influencer e creator adatti, secondo criteri semantici di rilevanza e di pertinenza rispetto alla personalità semiotica del brand, all’audience attuale e potenziale, e al contesto”.
Prima di proseguire oltre, un riepilogo delle pubblicazioni di questa settimana, nei sette giorni che ci separano dall’uscita della scorsa newsletter (la numero 23).
Sono usciti rispettivamente l’episodio numero 17 della rubrica Parole d’Italia e l’episodio numero 9 della rubrica Share of Words. Se con Parole d’Italia osserviamo un campione casuale di messaggi generati nell’infosfera di lingua italiana, con Share of Words l’analisi del contenuto si allarga a un campione casuale di messaggi generati in una vasta porzione dell’infosfera internazionale (news, social, tv, web), seppur in prevalenza di lingua inglese data la natura delle arene oggetto dell’osservazione. In entrambi i casi, la settimana monitorata va dall’1 al 7 gennaio 2024.
Torniamo al nostro caso. Ricordiamolo, lo si affronta in senso pratico, dunque extra-morale. In questo mese che ci separa dall’inizio della vicenda, sono state formulate molte inferenze, previsioni se si vuole, sugli effetti che il caso produrrà sui brand e sulle aziende coinvolte. In alcuni casi sono stati presi come base per formulare inferenze e previsioni alcuni segnali certamente pertinenti, ma forse deboli. Il fatto è che ad oggi mancano delle informazioni essenziali per comprendere cosa le persone hanno capito della faccenda e come stanno interpretando ciò che hanno compreso. Saranno probabilmente in possesso dei professionisti che se ne stanno occupando. In assenza di quelle, si possono fare solo delle congetture, e qualche esperimento mentale.
In primo luogo: molti hanno giudicato inidonea la reazione dell’influencer e la sua prima gestione della crisi. Può darsi che sia così. Prima però di giudicare la comunicazione dell’influencer, e provare a prevederne gli effetti perlocutori, bisognerebbe interrogarsi sui mezzi espressivi su cui quella comunicazione poggia. La confusione tra comunicazione ed espressione impedisce di analizzare la struttura formale dei messaggi e, di conseguenza, impedisce di valutare le interpretazioni (possibili) di quei messaggi. Ora, da questo punto di vista, il nocciolo della reazione dell’influencer non è peregrino. La cifra espressiva, espressiva si badi, dell’operazione è infatti l’ambiguità. L’ambiguità è data dall’accostamento paratattico tra due costituenti, del tipo: “vendo e faccio beneficenza”. Solo l’inevitabile disposizione (e costrizione) lineare dell’espressione linguistica può suggerire una consequenzialità temporale che non è invece necessariamente tale dal punto di vista logico. Sta a chi legge, o ascolta, sciogliere l’ambiguità. E questa, come dicevamo, è una delle informazioni che non abbiamo: cosa è passato di quel messaggio? Certo, in questo caso ci sono delle evidenze a supporto: degli scambi epistolari tra alcuni dei protagonisti. Ma anche qui, non abbiamo dati né informazioni che ci dicono quanti hanno letto quegli scambi e, nel caso, cosa ha compreso chi lo ha fatto.
Si possono solo fare congetture, si diceva. Facciamo perciò un piccolo esperimento. Mettiamo che nella pubblica opinione sia egemone il gruppo che accetta l’argomento, che chiamiamo difensivo, della legittimità della mancata correlazione tra vendite e dono. In quel caso, dal punto di vista della costruzione narrativa dell’operazione di marketing, ci troveremmo di fronte a due agenti/brand che hanno efficacemente comunicato ai destinatari di essere venditori, ma pure benefattori. Sono due brand che dunque ripongono fiducia nella capacità di quell’attributo narrativo di portare dei vantaggi competitivi alle loro imprese. E qui si aprirebbe un altro capitolo di indagine per comprendere se tale fiducia è ben riposta o meno. Aggiungerebbe un tono ironico a questo quadro sperimentale un altro dei capisaldi della tesi difensiva, che la maggior parte dei commentatori ha tra l’altro accolto acriticamente: il cosiddetto “fallimento” commerciale dell’operazione.
Poniamo invece che nella pubblica opinione prevalga la tesi che chiamiamo dell’accusa. In quel caso, i due agenti che hanno investito nella costruzione della loro identità narrativa di “benefattori” si troverebbero allora a confrontarsi con una crisi nel senso letterale: una crepa nella loro personalità semiotica (nello specifico, dei tratti etici della loro personalità semiotica). Una crisi irreversibile? Non è detto. Anche qui mancano i dati per poter fare delle previsioni sensate, ma è possibile seguire alcune tracce. Ovviamente tutto è risemantizzabile, a patto però che vi siano le condizioni per tentare l’impresa. In questo caso, se si guarda a ciò che sta accadendo, qualche appiglio per l’influencer ci sarebbe, e probabilmente i professionisti vi lavorano vi si sono già aggrappati, dati alla mano come si suol dire. In primo luogo, la tesi dell’accusa è propalata perlopiù dai media, per le dinamiche proprie del ciclo della notizia. E i media, i legacy media in particolar modo, a volerli usare a fini narrativi sono l’antagonista perfetto. Qualcosa in questo senso si è già intravisto. Poi, se si vuole tentare di ricostruire la competenza narrativa del lettore-ideale di questa storia, rispetto all’attributo del “far beneficenza” in particolar modo, influencer e azienda si trovano in una situazione asimmetrica. L’influencer potrà rivendicare di fare commercio solo con aziende che fanno beneficenza, in un contesto in cui pare vi siano evidenza che dicono quanto “piccolo sia tuttora il mondo delle aziende che ritengono concretamente strategico il loro impegno sociale” (Italy Giving Report 2023). L’azienda cosa potrà invece rivendicare? Di far beneficenza per far commercio con l’influencer? Chissà. Anche qui mancano le evidenze.
La vicenda è divenuta un’occasione per discutere dell’influencer marketing in generale. Rispetto al settore della moda, qualcuno è arrivato pure a pronosticare una virata degli investimenti dagli influencer ai media tradizionali. Una virata che parrebbe al momento controfattuale, visto l’aumentare degli investimenti nel settore almeno in Italia. Senza dubbio, le attività di influencer marketing vanno viste per quelle che sono, delle attività di marketing che hanno di conseguenza bisogno di essere supportate da ricerche di intelligence al fine di poter risultare efficaci. Non si tratta perciò solo di “affittare un audience”, com’è stato giustamente ricordato, ma di “fare una valutazione seria sui valori portati dal personaggio, che devono autenticamente essere in linea a quelli del brand”.
D’altronde, è arduo negare che l’influencer marketing è una risorsa preziosa nell’èra dell’ad avoidance.
Lo stesso Nielsen 2023 Consumer Survey Report afferma che “59% of consumers said they will be as or more likely to purchase items their favorite influencer recommends as they would without such an endorsement”.
Al quadro va aggiunta anche la bassissima soglia di attenzione dedicata agli annunci pubblicitari da parte di alcuni gruppi: “one study found Gen-Z loses active attention for advertising after just 1.3 seconds.172 Even in this environment, influencers continue to be a powerful channel for brands to break through the noise and connect with consumers, with the influencer-marketing industry forecast to reach $21.1 billion in 2023, up from $16.4 billion in 2022.173 (The State of Fashion 2024, che cita dati di McKinsey).
Un’attenzione che va ricercata anche negli effetti che l’influencer marketing può generare in termini di earned media, un indicatore che “has become more recognized in recent years as a good measure of influencer campaigns’ ROI. We asked our respondents whether they considered it a fair representation. This year, 83% favor the measure against 20% who don’t. This result is up slightly from last year. Earned Media Value provides a proxy for the returns on the posts that an influencer has historically given the firms they have worked with. It indicates what an equivalent advertising campaign would cost for the same effect. EMV calculates the worth you receive from content shared by an influencer” (Influencer Marketing Hub Report).
Veniamo ora a qualche dato e a qualche informazione sulla faccenda, frutto di un carotaggio su un campione casuale di messaggi pubblicati in una porzione arbitraria dell’infosfera italiana a cavaliere dell’inizio e del primo evolversi del caso. Qual è il trend? Quali sono le parole correlate più frequenti? Qual è il sentiment? Come si evolvono i volumi di ricerca?
Per quasi tutti gli indicatori, il carotaggio è stato svolto per mezzo di quattro chiavi di ricerca: “balocco”, “beneficenza”, “ferragni”, “pandoro”.
Questo è il trend.
Il sentiment.
Le keywords.
Passiamo ora alla search intelligence, con qualche proiezione sulla chiave di ricerca “ferragni”.
Il volume di ricerche.
Le ricerche correlate.
Infine, alcune proiezioni su qualche kpi di due websites.
Grazie della pazienza e al prossimo episodio. Per eventuali approfondimenti ci sono il sito di tropic e i DM di chi scrive.